Días 34-38: Hoi An e il nostro primo Natale in spiaggia

l Natale fuori casa ha uno strano sapore dolce e amaro. Siamo stati su una spiaggia bellissima con le isole che disegnavano l’orizzonte, ci siamo fatti delle foto con dei cappellini rossi, abbiamo preso il sole e mangiato un piatto di riso sotto un ombrellone di paglia. Il cibo lo preparavano nelle loro case in un paesello a ridosso della spiaggia delle minute signore tutte imbacuccate (per la fobia del sole), il loro non-ristorante si chiama «3 ladies kitchen» e ci tenevano molto a toglierci la sabbia dai lettini con uno spolverino per la polvere.

Buon Natale!

Sulla spiaggia erano state portate a secco de barche dei pescatori che in questa zona hanno una strana forma a tazza, completamente anti acquatica a mio parere ma che ha delle radici storiche interessantissime (articolo del national geographic, foto bellissime )! Paese che vai, usanze che trovi. Si chiamano “thung chai” o “thuyen thung” rispettivamente «bottiglia» o «casa barca»; sono fatte da intrecci di bambú e vengono ricoperte di bitume e resine per stagnarle, talvolta l’impermeabilizzazione viene fatta con sterco di vacca. Nacquero per eludere le gravose tasse dell’impero coloniale francese alle imbarcazioni da pesca. Spacciate per grandi cesti, sono diventate un simbolo di indipendenza. È bello scoprire queste cose e vedere che la fioritura, o sarebbe meglio dire l’infestazione, dei resort sul mare non abbia ancora cancellato del tutto le tradizioni locali.

Al mare siamo andati in bici da Hoi An, il nostro quartier generale, tra una imprecazione e l’altra nei confronti degli autisti. La strada per tornare in città passava in mezzo ai campi di riso allagati, con signore con i cappelli a cono chine sull’acqua, i bufali che si rotolavano nel fango e le garzette che si elevavano in stormi. 
Abbiamo anche sentito la nostalgia dei nostri, tutti riuniti intorno al tavolo, il baccano dei bambini (italiani e spagnoli), gli sfottò di L. agli anziani, le macchie di vino sulla tovaglia, la risata chioccia di zia L., le cento prelibatezze tutte italiane preparate con amore da mamma, il camino acceso da P., la visita inaspettata di zio F., e G. che pensa al suo vestito da sposa. Per non menzionare le birre nel salone dopo cena con D,T e A!

Antonio per festeggiare il Natale ha cenato con un’aragosta alla spropositata cifra di 12 euro. Il nostro hotel è nel quartiere del «night market» dove si mescolano venditori di vestiti a quelli che arrostiscono polpi, rane, gamberi, pollo e aragoste fiancheggiati dai venditori di souvenir. Tutto avvolto in una nuvola al sapore di barbecue e crepes al suono «can I help you lady? try, try». Notare la rana impalata in secondo piano nella prima foto.

Hoi An è una città splendida, patrimonio UNESCO, sul delta del fiume Thu Bon. Fu una fiorente città dove convivevano gli interessi commerciali di giapponesi, cinesi e vietnamiti, fin quando non venne soppiantata dalla vicina Danang che i francesi preferirono alla città fluviale. Tutto questo l’ha miracolosamente preservata dalla distruzione dei bombardamenti di guerra prima e dalla ripresa economica poi. Gli isolati sono lunghi e stretti e le case a due spioventi sono passanti: hanno quasi tutte un doppio affaccio e un patio interno. Sono a due piani, in legno, e le facciate sono dipinte tutte di giallo, al primo piano ci sono dei bellissimi balconi con fiori e piante (in Vietnam non mancano mai, nemmeno sulle case zattere). Nella parte bassa quasi tutti i muri sono verdi di muschio a causa dell’umidità portata delle numerose inondazioni che colpiscono la città, l’ultima, bestiale, del 2017. In sporadiche occasioni è capitato che l’acqua arrivasse sino al primo piano. Si navigava in barca per le strade.

Per come l’abbiamo vista noi ha l’aspetto di un piccolo parco giochi per turisti, ogni casa è un negozio, cosa che ha naturalmente snaturato il paesello di pescatori e commercianti, ma lo ha anche salvato dall’incuria e dalla povertà. Siamo addirittura usciti con i sandali, attaccando le scarpe da trekking al chiodo per un giorno.

Il 24 sera in un attacco di italianitá/europeismo ho mangiato per la prima volta cibo nostrano: una schifosissima pizza, congelata, per la modica cifra di sei euro. Non me ne pento, lo rifarei, fosse anche solo per questa foto. 

Tornando verso l’hotel ci siamo fatti attrarre dal carisma di un artista che faceva piano-bar in un localetto sul fiume e abbiamo passato la sera della vigilia a bere birra e goderci lo spettacolo, fottendocene che non fosse made in Asia. A volte esageriamo co’ sta cosa del «local«. Il bar era proprio a ridosso dei canali, che di sera (tutte le sere), si riempiono di barchette che traccheggiano i turisti su e giù, tutto è illuminato dai faretti colorati e dalle candele che i turisti lasciano nel fiume (Greta non me volere, era bello assai).

Dopo una estenuante ricerca tra le centinaia di sarte che hanno negozi in città, ho ceduto alla vanità, e mi sono fatta fare due vestiti in misto seta per 55 euro che mi stanno una cacata, uno non mi entra nemmeno. Oramai è fatta, almeno potrò variare un poco la mia divisa di decathlon! D’altronde te li fanno in appena un giorno, se ci fossero state le tre sorelle Sebastiani e Mary cugina sarebbe stato diverso. 
Sì è quasi conclusa la tappa vietnamita, siamo in aereo per HCM e domani partiremo per le spiagge Thailandesi, con la speranza che Anto possa lavorare meno del previsto e godersi il mare, magari evitando di affogare come quasi accadde in viaggio di nozze! 

È il momento della pagella del primo monomestre e per noi il Vietnam è stata una tappa speciale. Il paese è in crescita economica tangibile, il divario sociale è ovunque, i paesaggi naturali sono strabilianti, le città caotiche, il cibo superbo e le persone hanno uno sguardo dignitoso e fiero, anche nella povertà, accompagnato da un gentile sorriso.

 

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